Riflessioni tra Man Ray, Basilico, Berengo Gardin, Emi Anrakuji, Arthur Tress e Rineke Dijkstra.
Una bella serata con amici, una irresistibile bottiglia di ottimo rhum, degli animi inquieti con menti mobili e neuroni attivi, il tasso culturale della conversazione si eleva di pari passo con quello alcolico.
Intorno al tavolo ci sono musicisti, giovani pensatori, 2 fotografi ed una pittrice.
A parte i fotografi nessuno si occupa o si è occupato seriamente di fotografia.
Chiaro il quadro? Ok!
Io cosa ti tiro fuori? Un pensiero sull'involuzione culturale in atto nel mondo dell'immagine favorita, a mio parere, dal drastico abbassamento della soglia di accesso alla fotografia, dalla conseguente sovrapproduzione, con tanto di commento sarcastico sull'uso estensivo ed intensivo dell'aggettivo (aggettivo, non sostantivo) "arte" cui si assiste sui vari social.
Ora, se state pensando che toccare un argomento del genere in tale situazione è da pirla, beh avete maledettamente ragione!!!
Ed infatti subito dopo non ho mancato di dimostrare la mia inadeguatezza nel comunicare ed argomentare il perché il maestro Berengo Gardin non voglia essere definito né si consideri (giustamente) "artista", perché avere "occhio" non significhi fare arte, esprimere la profonda differenza che c'è tra arte e documentazione, tra reportage ed espressione interiore.
Non ho convinto nessuno, nemmeno me stesso, ma forse ho gettato il seme del dubbio.
Anche in me stesso, come sempre del resto.
E allora ecco che mi ritrovo a riflettere di arte e di fotografia e di perché un'immagine sfocata, bruciata, mossa possa essere considerata arte a pieno titolo (Foto di Emi Anrakuji - senza titolo - 2015 - Cliccate qui o sulla foto per approfondire il lavoro della Anrakiji, ne vale la pena.) mentre un'altra immagine, analoga e magari anche leggermente migliore tecnicamente, non lo sia (evito esempi per non offendere la suscettibilità di nessuno).
Sono strade del pensiero che ho percorso moltissime volte, avanti ed indietro, sono costellate di specchi bastardi dove guardarsi dentro, per capire se stai pensando libero o preconcetto, se stai pensando o stai cercando argomenti per sostenere il tuo desiderio di realtà.
Un po' per gli specchi un po' perché è così che funziona, sono strade che, per quanto si possano conoscere, rivelano ogni volta nuovi svincoli, nuove svolte, talvolta sentieri, talvolta immense autostrade che sono sempre state lì ma tu non le hai mai viste.
Stavolta sulla strada ho incontrato Man Ray, maestro della sperimentazione e certamente tra i padri più influenti dell'espressione artistica in fotografia.
Immediatamente a seguire, in uno specchio, ho ammirato alcune immagini del maestro Berengo Gardin, che dall'alto dei suoi lucidissimi 82 anni continua a regalarci esperienza e sensibilità.
Un po' più avanti ecco una diramazione, un sentiero che conosco bene ma che ho sempre percorso pensando ad altro, è un sentiero che porta a Gabriele Basilico, altro maestro indiscusso che ha segnato un prima ed un dopo. Il suo lavoro è in zona grigia, se il meraviglioso lavoro di Man Ray è immediatamente inquadrabile come arte e gli splendidi scatti di Gardin sono documentazione, cosa suggerisce l'istinto osservando il lavoro di Gabriele Basilico? Dove incasellare i suoi paesaggi urbani? I suoi "ritratti di fabbriche" documentano la realtà, e non dubito che tra 200 anni saranno immagini ancora più preziose di oggi, per il loro valore documentale.
Ciò non di meno lui si è sempre definito artista e dietro al suo lavoro oltre ad una assoluta padronanza tecnica c'è un pensiero, un'idea, un percorso, una ricerca profonda, un sentire alternativo e personale. Anche il MoMA gli ha commissionato un lavoro.
Commissionato? ALERT! Il lavoro su commissione più difficilmente può essere arte, perché il committente può imporre e condizionare il lavoro al punto da impedire la libertà espressiva dell'autore. Eppure...
Ah, a proposito, anche Gardin ha una foto al MoMA.
E quindi proseguendo nel sentiero delle connessioni incontro anche il ricordo di Arthur Tress
Che le sue immagini siano arte non credo sia dubitabile, eppure anche lui ha lavorato su commissione, spesso.
E quindi? Come mettere insieme tutte queste considerazioni, come collimare la prospettiva artistica con l'orizzonte documentativo e viceversa?
Credo che valga lo stesso principio che proponevo nell'ultimo post circa le foto belle e le foto buone: dipende dal perché, dall'intenzione, dal percorso.
Se fotografo dei bambini e dei ragazzi, semplicemente, senza nessuna particolarità, in un modo che ad una prima superficiale occhiata potrebbe apparire addirittura banale, è possibile che stia facendo arte? Di per se no, ma dipende.
Questi ritratti di Rineke Dijkstra sono arte, perlomeno così la pensa il Guggenheim e non solo, visto che espone in tutto il mondo.
Allora da cosa dipende?
Sempre dall'idea, dal come, dal quando, dal quanto. Da quello che c'è dietro. Dal perché.
Se su una spiaggia di inverno fotografiamo un gruppo di ragazzi, anche se con un po' di post-produzione otteniamo le cromie della Dijkstra, insomma un'immagine in tutto e per tutto simile alle sue, NON abbiamo realizzato un'opera d'arte.
Perché? Perché dietro non c'è nulla, non un progetto, non un pensiero, solo un po' di occhio, forse un goccio di buon gusto e tanta casualità. Non basta.
Ecco, è sempre il perché che torna.
Quello che sta dietro, dietro la macchina, dietro lo strumento, il pensiero dietro all'azione.
Click less, think more!
E allora buon 2016, che ogni vostro desiderio possa realizzarsi, prima o poi.
Ed un grazie di cuore agli amici che hanno stimolato questa riflessione!!!!
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